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Vincenzo Manzini e il suo Trattato di diritto penale italiano

2024-09-09 17:26

Andrea Valentinotti

Storia,

Vincenzo Manzini e il suo Trattato di diritto penale italiano

Su Vincenzo Manzini (1872 – 1957), uno dei grandi giuristi italiani, si potrebbe parlare a lungo, e giustamente, esistono infinite pubblicazioni sul s

Su Vincenzo Manzini (1872 – 1957), uno dei grandi giuristi italiani, si potrebbe parlare a lungo, e giustamente, esistono infinite pubblicazioni sul suo pensiero.

Artefice della redazione del Codice penale e di procedura penale del 1930, viene ricordato per esser stato, se non l’autore, quantomeno fautore del consolidamento dell’indirizzo tecnico-giuridico, che doveva superare la divisione tra la scuola "classica" e "positiva".

Per Manzini il sistema penale era una vera e propria scienza, tanto da definire inutili le indagini filosofiche, parlando di “danno della filosofia al diritto penale”.

In questa sede ci permettiamo di soffermarci su una delle sue principali pubblicazioni, considerata ancora oggi un’opera monumentale del diritto penale: il “Trattato di diritto penale italiano”.

 

Pubblicata per la prima volta nel 1933 (suddivisa in dieci volumi di cui i primi tre volumi riguardanti la parte generale, mentre i restanti sette la parte speciale), e ritenuta l’esposizione più completa di diritto penale presente nella letteratura giuridica italiana ad opera di un solo uomo, l’opera è permeata dall’approccio tecnico di cui abbiamo parlato.

Il rigore metodologico dell’intera opera è tangibile subito dalle prime pagine.

Imprescindibile per qualsiasi operatore del diritto (quantomeno fino all’avvento dei manuali moderni della seconda metà del secolo scorso), era la fonte a cui attingere per trovare ogni soluzione ai diversi casi da affrontare in aula di Tribunale.

L’opera approfondiva in maniera talmente esaustiva ogni singolo aspetto di tutti gli istituti del diritto penale, da comportare, secondo alcuni, una “controindicazione”: Alfredo De Marsico sosteneva che era sconsigliabile farsi vedere in aula d’udienza con un volume del Manzini.

Ciò in quanto si avrebbe dato la sensazione al giudice di essere a corto di idee, poiché l’opera in questione era talmente esaustiva su ogni singolo aspetto, da far ritenere che la sua consultazione fosse l’ultima possibilità di trovare appigli.